IL TRIBUNALE 
 
    Nel procedimento penale  n.  36253/08  P.M.RN.R.  e  n.  27180/10
Registro Generale a carico di: 
        Iannuzzi Raffaele, nato a Grottolella  (AV)  il  20  febbraio
1928, domiciliato in Roma in via Giovan  Battista  De  Rossi  n.  32,
presso  lo  studio  dell'avvocato  Grazia  Volo,  difeso  di  fiducia
dall'avvocato Grazia Volo e dall'avvocato Dando Romagnino; 
    Imputato per il delitto p. e p.: 
        a) artt. 595 1°, 2°, e 3° co. c.p., 13 L.  47/48,  61  n.  10
c.p. perche' in qualita' di autore del libro intitolato «Lo sbirro  e
lo  Stato»  edizioni  Koine'  2008,  da  intendersi  qui  trascritto,
offendeva, con il mezzo della stampa e mediante attribuzione di fatti
determinati, la reputazione di Lo Forte  Guido,  magistrato  gia'  in
servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo in qualita' di
Procuratore Aggiunto a causa dell'adempimento delle sue funzioni;  in
particolare, redigendo l'opera predetta: 
          riproponeva   i   contenuti    diffamatori    dell'articolo
pubblicato su Il Giornale del 7 novembre 2004 intitolato  «Mafia:  13
anni di scontri tra PM e  Carabinieri»  nel  quale  si  ricostruivano
vicende giudiziarie cui aveva preso parte per le sue funzioni  il  Lo
Forte, indicandole come conseguenza o  comunque  espressione  di  una
guerra promossa  dalla  Procura  di  Palermo  contro  il  R.O.S.  dei
Carabinieri per delegittimare  importanti  esponenti  dell'Arma,  con
finalita' diverse da quella istituzionale; 
          affermava,  sempre  con  riferimento  all'attivita'   della
Procura di Palermo e quindi del Lo Forte; 
          che «Bruno Contrada non e'  il  solo  poliziotto,  il  solo
servitore dello Stato perseguito  e  incriminato  dai  professionisti
dell'Antimafia della Procura di Palermo» (f.76); 
          che «e' stato cosi per il Tenente dei  Carabinieri  Carmelo
Canale, il piu' fidato collaboratore del  giudice  Paolo  Borsellino,
che lo chiamava fratello, e che e' stato  perseguitato  e  processato
per anni soltanto perche' difendeva la memoria  del  M.llo  Lombardo»
(f. 76); 
          che «e cosi  e'  stato  per  il  Capitano  dei  Carabinieri
Giuseppe De Donno, il principale collaboratore di  Giovanni  Falcone,
che aveva avuto il torto di  denunciare  la  fuga  di  notizie  dalla
Procura di' Palermo  dell'inchiesta  sulla  mafia  e  sugli  appalti»
(f.76); 
          che «e cosi il  Maggiore  Obinu  che  voleva  riportare  in
Italia dagli Stati Uniti il boss Gaetano Badalamenti per testimoniare
contro le false accuse mosse contro a Giulio Andreotti» (f.77); 
          che «e cosi per il Colonnello Meli, che comandava il Gruppo
dei Carabinieri  di  Monreale,  ed  aveva  scoperto  che  il  pentito
Baldassare Di Maggio, liberato dal carcere e pagato per ordine  della
Procura di Palermo, scorrazzava per  la  Sicilia  ammazzando  i  suoi
nemici» (f.77); 
          che «e per il capitano Sergio  Di  Caprio,  il  leggendario
capitano Ultimo, che ha arrestato il capo della mafia Toto Riina,  ed
e' stato perseguito per anni e processato con l'accusa  di  non  aver
perquisito in tempo il covo di Riina per complicita'  con  la  mafia»
(f. 77); 
          che  «e  con  lui  hanno  perseguitato  per  anni  e  hanno
processato il Generale  Mario  Mori,  comandante  dei  R.O.S.  e  poi
comandante del SISDE, il servizio segreto civile» (f. 77); 
          che «e non contenti di una  persecuzione  che  dura  da  15
anni, nonostante che alla fine il Generale  Mori  e'  stato  assolto,
assieme  a  Di  Caprio,  con  la  formula  piena,  i   professionisti
dell'Antimafia si apprestano a riprocessare Mori con l'accusa di  non
aver voluto arrestare Bernardo  Provenzano,  il  Carabiniere  che  ha
arrestato Toto Riina, sara' infamato ancora per anni e processato per
non aver arrestato Provenzano» (f. 77); 
          che «questi pentiti che vengono  usati  per  incriminare  e
processare non  i  mafiosi  ma  i  poliziotti  e  i  carabinieri  che
combattono e arrestano i mafiosi» (f. 77); 
          sosteneva nel contesto complessivo della pubblicazione  che
il magistrato suddetto era un «professionista dell'antimafia» la  cui
attivita' giudiziaria sarebbe stata improntata a dolosa faziosita'  e
ad intenti  persecutori,  comunque  ispirata  da  finalita'  illecite
attuate mediante comportamenti devianti. 
    In Roma nel febbraio 2008, querela del 12 luglio 2008. 
        b) artt. 595 1°, 2° e 3° co. c.p., 13 legge n. 47/48, 61 n.10
c.p. perche', in qualita' di autore del libre intitolato «Lo sbirro e
lo  Stato»  edizioni  Koine'  2008,  da  intendersi  qui  trascritte,
offendeva, con il mezzo della stampa e mediante attribuzione di fatti
determinati, la reputazione di Caselli Giancarlo, magistrato gia'  in
servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo in qualita' di
Procuratore,  a  causa  dell'adempimento  delle  sue   funzioni;   in
particolare, redigendo l'opera predetta: 
          riproponeva   i   contenuti    diffamatori    dell'articolo
pubblicato su Il Giornale del 7 novembre 2004 intitolato  «Mafia:  13
anni di scontri tra PM e  Carabinieri»  nel  quale  si  ricostruivano
vicende giudiziarie cui aveva preso parte  per  le  sue  funzioni  il
Caselli, indicandole come conseguenza e comunque espressione  di  una
guerra promossa  dalla  Procura  di  Palermo  contro  il  R.O.S.  dei
Carabinieri per delegittimare  importanti  esponenti  dell'Arma,  con
finalita' diverse da quelle della funzione istituzionale; 
          affermava,  sempre  con  riferimento  all'attivita'   della
Procura di Palermo, e quindi del Caselli: 
che «Bruno Contrada non e' il  solo  poliziotto,  il  solo  servitore
dello   Stato   perseguito   e   incriminato    dai    professionisti
dell'Antimafia della Procura di Palermo» (f. 76); 
che «e' stato cosi per il Tenente dei Carabinieri Carmelo Canale,  il
piu' fidato  collaboratore  del  giudice  Paolo  Borsellino,  che  lo
chiamava fratello, e che e' stato perseguitato e processato per  anni
soltanto perche' difendeva la memoria del M.llo Lombardo» (f. 76); 
che «cosi e' stato per il Capitano dei Carabinieri Giuseppe De Donna,
il principale collaboratore di Giovanni Falcone, che aveva  avuto  il
torto di denunciare la fuga  di  notizie  dalla  Procura  di  Palermo
dell'inchiesta sulla mafia e sugli appalti» (f. 76); 
che «e' cosi il Maggiore Obinu che voleva riportare in  Italia  dagli
Stati Uniti il boss Gaetano Badalamenti per  testimoniare  contro  le
false accuse mosse contro Giulio Andreotti» (f. 77); 
che «e' cosi per il Colonnello Meli,  che  comandava  il  Gruppo  dei
Carabinieri di Monreale, ed aveva scoperto che il pentito  Baldassare
Di Maggio, liberato dal carcere e pagato per ordine della Procura  di
Palermo, scorrazzava per la Sicilia ammazzando  i  suoi  nemici»  (f.
77); 
che «e per il capitano Sergio  Di  Caprio,  il  leggendario  capitano
Ultimo, che ha arrestato il capo della mafia Toto Riina, ed e'  stato
perseguito per anni e processato con l'accusa di non aver  perquisito
in tempo il covo di Riina per complicita' con la mafia» (f. 77); 
che «e con lui hanno perseguitato per  anni  e  hanno  processato  il
Generale Mario Mori, comandante  dei  R.O.S.  e  poi  comandante  del
SISDE, il servizio segreto civile» (f. 77); 
che «e non  contenti  di  una  persecuzione  che  dura  da  15  anni,
nonostante che alla fine il Generale Mori e' stato assolto, assieme a
Di Caprio, con la formula piena, i professionisti  dell'Antimafia  si
apprestano a riprocessare  Mori  con  l'accusa  di  non  aver  voluto
arrestare Bernardo Provenzano, il Carabiniere che ha  arrestata  Toto
Riina, sara' infamato ancora per  anni  e  processato  per  non  aver
arrestato Provenzano» (f. 77); 
che «questi pentiti che vengono usati per  incriminare  e  processare
non i mafiosi ma i  poliziotti  e  i  carabinieri  che  combattono  e
arrestano i mafiosi» (f. 77); 
che il Caselli sarebbe stato «spedito in fretta da Torino  a  Palermo
giusto in tempo  per  processare  Contrada,  Andreotti,  Carnevale  e
compagnia cantante ...Caselli che ci fa la  figura  del  tonto  della
compagnia» (ff. 42 e 43); 
        sosteneva nel contesto complessivo della pubblicazione che il
magistrato suddetto era un  «professionista  dell'antimafia»  la  cui
attivita' giudiziaria sarebbe stata improntata a dolosa faziosita'  e
ad intenti  persecutori,  comunque  ispirata  da  finalita'  illecite
attuate mediante comportamenti devianti. 
    In Roma febbraio 2008, querela del 17 luglio 2008. 
        c) artt. 595 1°, 2° e 3° co. c.p., 13 legge n. 47/48,  61  n.
10 c.p., perche', in qualita' di  autore  del  libro  intitolato  «Lo
sbirro  e  lo  Stato»  edizioni  Koine'  2008,  da   intendersi   qui
trascritte,  offendeva,  con  il  mezzo  della  stampa   e   mediante
attribuzione di fatti determinati, la  reputazione  di  De  Francisci
Ignazio,  magistrato  gia'  in  servizio  presso  la  Procura   della
Repubblica di Palermo in  qualita'  Sostituto  Procuratore,  a  causa
dell'adempimento  delle  sue  funzioni;  in  particolare,   redigendo
l'opera predetta: 
          riproponeva   i   contenuti    diffamatori    dell'articolo
pubblicato su Il Giornale del 7 novembre 2004 intitolato  «Mafia:  13
anni di scontri tra PM e  Carabinieri»  nel  quale  si  ricostruivano
vicende giudiziarie cui aveva preso parte per le sue funzioni  il  De
Francisci, indicandole come conseguenza o comunque espressione di una
guerra promossa  dalla  Procura  di  Palermo  contro  il  R.O.S.  dei
Carabinieri per delegittimare  importanti  esponenti  dell'Arma,  con
finalita' diverse da quelle della funzione istituzionale; 
          affermava,  sempre  con  riferimento  all'attivita'   della
Procura di Palermo, e quindi del De Francisci: 
che, in relazione alle informazioni su  Contrada  «Sinico  rivela  ad
Ingroia, Ingroia rivela a Sinico, Mutolo rivela di  aver  rivelato  a
Borsellino, De Francisci rivela e piange sulla spalla di Sinico:  fin
dall'inizio  la  sintonia  tra  mafiosi   «pentiti»,   poliziotti   e
magistrati e' perfetta, l'osmosi delle rivelazioni e' garantita»  (f.
61); 
che «nella storia del suicidio del maresciallo Lombardo ebbe un ruolo
non secondario lo stesso P.M. De Francisci, che piangeva la morte  di
Borsellino, calunniava Contrada e annunziava l'arresto  di  Lombardo»
(f. 61) riconducendo poi il suicidio del  maresciallo  Lombardo  alla
responsabilita' del predetto magistrato (f. 76); 
che «questi pentiti che vengono usati per  incriminare  e  processare
non i mafiosi ma i  poliziotti  e  i  carabinieri  che  combattono  e
arrestano i mafiosi» (f. 77); 
sosteneva  nel  contesto  complessivo  della  pubblicazione  che   il
magistrato suddetto era un  «professionista  dell'antimafia»  la  cui
attivita' giudiziaria sarebbe stata improntata a dolosa faziosita'  e
ad intenti  persecutori,  comunque  ispirata  da  finalita'  illecite
attuate mediante comportamenti devianti. 
    In Roma febbraio 2008, querela del 17 luglio 2008. 
        d) artt. 595 1°, 2° e 3° co. c.p., 13 legge n. 47/48,  61  n.
10 c.p. perche' in qualita' di autore del libro intitolato «Lo sbirro
e lo Stato» edizioni  Koine'  2008,  da  intendersi  qui  trascritto,
offendeva, con il mezzo della stampa e mediante attribuzione di fatti
determinati, la reputazione di Ingroia Antonio,  magistrato  gia'  in
servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo in qualita' di
Sostituto Procuratore, a causa dell'adempimento delle  sue  funzioni;
in particolare, redigendo l'opera predetta: 
          riproponeva   i   contenuti    diffamatori    dell'articolo
pubblicato su Il Giornale del 7 novembre 2004 intitolato  «Mafia:  13
anni di scontri tra PM e  Carabinieri»  nel  quale  si  ricostruivano
vicende giudiziarie  cui  aveva  preso  parte  per  le  sue  funzioni
l'Ingroia, indicandole come conseguenza o comunque espressione di una
guerra promossa  dalla  Procura  di  Palermo  contro  il  R.O.S.  dei
Carabinieri per delegittimare  importanti  esponenti  dell'Arma,  con
finalita' diverse da quella istituzionale; 
          affermava,  sempre  con  riferimento  all'attivita'   della
Procura di Palermo e quindi dell'Ingroia: 
che «Bruno Contrada non e' il  solo  poliziotto,  il  solo  servitore
dello   Stato   perseguito   e   incriminato    dai    professionisti
dell'Antimafia della Procura di Palermo» (f. 76); 
che «e' stato cosi per il Tenente dei Carabinieri Carmelo Canale,  il
piu' fidato  collaboratore  del  giudice  Paolo  Borsellino,  che  lo
chiamava fratello, e che e' stato perseguitato e processato per  anni
soltanto perche' difendeva la memoria del M.llo Lombardo» (f. 76); 
che «e cosi e' stato per il  Capitano  dei  Carabinieri  Giuseppe  De
Donno, il principale collaboratore di  Giovanni  Falcone,  che  aveva
avuto il torto di denunciare la fuga  di  notizie  dalla  Procura  di
Palermo dell'inchiesta sulla mafia e sugli appalti» (f.76); 
che «e' cosi per il Maggiore Obinu che  voleva  riportare  in  Italia
dagli Stati Uniti il boss Gaetano Badalamenti per testimoniare contro
le false accuse mosse contro Giulio Andreotti» (f. 77); 
che «e' cosi per il Colonnello Meli,  che  comandava  il  Gruppo  dei
Carabinieri di Monreale, ed aveva scoperto che il pentito  Baldassare
Di Maggio, liberato dal carcere e pagato per ordine della Procura  di
Palermo, scorrazzava per la Sicilia ammazzando  i  suoi  nemici»  (f.
77); 
che «e per il capitano Sergio  Di  Caprio,  il  leggendario  capitano
Ultimo, che ha arrestato il capo della mafia Toto Riina, ed e'  stato
perseguito per anni e processato con l'accusa di non aver  perquisito
in tempo il covo di Riina per complicita' con la mafia» (f. 77); 
che «e con lui hanno perseguitato per  anni  e  hanno  processato  il
Generale Mario Mori, comandante  dei  R.O.S.  e  poi  comandante  del
SISDE, il servizio segreto civile» (f. 77); 
che «e non  contenti  di  una  persecuzione  che  dura  da  15  anni,
nonostante che alla fine il Generale Mori e' stato assolto, assieme a
Di Caprio, con la formula piena, i professionisti  dell'Antimafia  si
apprestano a riprocessare  Mori  con  l'accusa  di  non  aver  voluto
arrestare Bernardo Provenzano, il Carabiniere che ha  arrestato  Toto
Riina, sara' infamato ancora per  anni  e  processato  per  non  aver
arrestato Provenzano» (f. 77); 
che «questi pentiti che vengono usati per  incriminare  e  processare
non i mafiosi ma i  poliziotti  e  i  carabinieri  che  combattono  e
arrestano i mafiosi» (f. 77); 
          con riferimento specifico all'Ingroia affermava: 
che all'udienza del 13 luglio 1995 «il P.M. si e' alzato a sorpresa e
ha chiesto  al  Tribunale  di  introdurre  a  testimoniare  un  nuovo
pentito, spuntato improvvisamente non si sa come e non si sa  dove  »
(f. 19); 
che «i processi a Contrada sono basati  esclusivamente  sulle  accuse
dei pentiti e spesso si tratta di mafiosi assassini a  cui  e'  stato
proprio Contrada a dare la caccia, a trascinarli davanti al Giudice e
a farli condannare, e che si sono vendicati, piu' o meno  sollecitati
e incoraggiati» (f. 21); 
che di un pentito «gli avvocati hanno scoperto, sempre nel corso  del
processo di appello, che era stato nascosto il verbale  di  un  primo
interrogatorio» (f. 23); 
che, a proposito della frase attribuita  all'Ingroia  «l  'accusa  e'
interessata  solo  ai  documenti  che  sono  a  sostegno  della  tesi
accusatoria» «lo Stato di diritto  della  Costituzione  si  declinano
cosi nella  cultura  dei  professionisti  dell  'Antimafia  ...questo
Ingroria che nasconde i documenti della difesa e si esalta  solo  con
quelli che accusano» (f. 48); 
che «i PP.MM. richiamano il pentito e gli  fanno  cambiare  versione»
(f. 53); 
che «il solito p.m. di  Palermo,  Antonio  Ingroria,  quello  che  ha
sostenuto l'accusa contro Contrada ed e' lo stesso che  ha  sostenuto
l'accusa contro Dell'Utri nel processo di 1° grado, e utilizzando gli
stessi pentiti si e' dichiarato soddisfatto di  come  e'  finita  per
Contrada in Cassazione dopo 15 anni» (f. 58); 
che, in relazione alle informazioni su Contrada «fin  dall'inizio  la
sintonia tra mafia «pentiti» poliziotti  e  magistrati  e'  perfetta,
l'osmosi delle rivelazioni e' garantita» (f. 61); 
che, parlando di  un'accusa  inventata  contro  Contrada,  lo  stesso
«viene processato per strage, senza essere incriminato e senza essere
rinviato a giudizio. Nel frattempo fingono di  processarlo  solo  per
concorso esterno» (f. 66); 
che «questi pentiti che vengono usati per  incriminare  e  processare
non i mafiosi ma i  poliziotti  e  i  carabinieri  che  combattono  e
arrestano i mafiosi» (f. 77); 
        sosteneva nel contesto complessivo della pubblicazione che il
magistrato suddetto era un «professionista dell'  antimafia»  la  cui
attivita' giudiziaria sarebbe stata improntata a dolosa faziosita'  e
ad intenti  persecutori,  comunque  ispirata  da  finalita'  illecite
attuate mediante comportamenti devianti 
    In Roma nel febbraio 2008, querela del 12 luglio 2008. 
 
                            Premesso che: 
 
    Il 17 settembre 2009 il PM  chiedeva  il  rinvio  a  giudizio  di
Iannuzzi Raffaele in relazione al delitto  di  diffamazione  a  mezzo
stampa: nel libro «Lo sbirro e lo  Stato»  edizioni  Koine'  2008  lo
Iannuzzi avrebbe leso l'onore e la reputazione  di  Lo  Forte  Guido,
Giancarlo Caselli, Antonio Ingroia, De Francisci Ignazio, accusandoli
di aver svolte le loro funzioni di magistrati con finalita'  illecite
ed intenti persecutori nei confronti di  alcuni  esponenti  dell'arma
dei  Carabinieri  e  della  Polizia   di   Stato,   indirizzando   le
dichiarazioni dei pentiti contro di loro e sopprimendo prove a favore
della difesa. 
    All'udienza preliminare del 6 novembre  2009,  dopo  l'ammissione
della costituzione di parte civile delle persone  offese,  la  difesa
sollevava  eccezione  d'insindacabilita'  delle   opinioni   espresse
dall'imputato: rilevava, infatti, che all'epoca  della  pubblicazione
del libro Iannuzzi Raffaele era senatore della Repubblica  e  che  il
contenuto dello scritto doveva essere interpretato come  «espressione
dell'attivita'  di  divulgazione,  denuncia  politica  e,   piu'   in
generale, di critica connessa alla funzione  parlamentare»  (si  veda
memoria del 5 novembre 2009). 
    A questa richiesta si opponeva il difensore  delle  parti  civili
che domandava, invece, la trasmissione degli  atti  al  Senato  della
Repubblica ai sensi dell'art. 3 comma 4 L 140/03 per il  procedimento
di competenza. 
    Con ordinanza dell'11 dicembre 2009 il giudice  per  le  indagini
preliminari, non ritenendo che le opinioni manifestate dallo Iannuzzi
potessero ritenersi rese nell'esercizio delle funzioni parlamentari e
che  per  esse  non  fosse  invocabile  l'insindacabilita'   prevista
dall'art. 68 primo Comma Cost., rigettava l'eccezione della difesa  e
ordinava  la  trasmissione  di  copia  degli  atti  al  Senato  della
Repubblica sospendendo il procedimento  penale  sino  al  90°  giorno
dalla ricezione degli atti da parte del Senato. 
    Trascorso questo termine, non essendo pervenuta la decisione  del
Senato, si procedeva a udienza preliminare  e,  il  16  luglio  2010,
sentite le conclusioni delle parti, il giudice disponeva il rinvio  a
giudizio di Iannuzzi  Raffaele  avanti  al  giudice  monocratico  del
Tribunale di Roma indicando l'udienza dell'8  febbraio  2011  per  la
comparizione delle parti. 
    Nel frattempo, con delibera del 3 agosto  2010,  l'Assemblea  del
Senato non approvava  la  proposta  Giunta  delle  elezioni  e  delle
immunita' parlamentari che, a  maggioranza,  aveva  concluso  che  le
dichiarazioni rese da Iannuzzi (non piu' senatore)  non  costituivano
opinioni espresse da  un  membro  del  parlamento  e  non  ricadevano
nell'ipotesi dell'art. 68 primo comma della Costituzione:  il  Senato
ne affermava, cosi', l'insindacabilita'. 
    All'udienza del 1° giugno 2011, preso atto di  questa  decisione,
il PM ed  il  difensore  delle  parti  civili  chiedevano  che  fosse
sollevato conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato  ai  sensi
degli artt. 134 Cost. e degli artt. 37, 23, 25, 26 legge  n.  87/1953
sostenendo che non competeva al Senato dichiarare  l'insindacabilita'
delle opinioni espresse da Raffaele Iannuzzi nel libro «Lo  sbirro  e
lo Stato» e che, pertanto, con la delibera adottata il 3 agosto  2010
il Senato aveva invaso la competenza dell'autorita'  giudiziaria.  La
difesa dell'imputato chiedeva, invece, che, in applicazione dell'art.
68 primo comma Cost. e dell'art. 3 comma 3 della  legge  n.  140  del
2033, si pronunciasse, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., una sentenza di
non doversi a procedere in quanto il  fatto  contestato  al  Senatore
Iannuzzi non era punibile. 
 
                               Osserva 
 
    1. La questione che e' stata proposta riguarda la  sindacabilita'
delle affermazioni  contenute  nel  libro  «Lo  sbirro  e  lo  Stato»
pubblicato nel febbraio del 2008 quando il suo  autore  era  senatore
della Repubblica. 
    Infatti, ai sensi dell'art. 68 Cost. i membri del Parlamento  non
possono essere chiamati a rispondere delle opinioni  espresse  e  dei
voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. 
    Ora, e' indubbio che la garanzia dell'insindacabilita' si estende
anche alle dichiarazioni rese da un appartenente al Parlamento  della
Repubblica fuori dall'ambito parlamentare. 
    In questo  caso,  e'  pero'  necessario  che  sussista  un  nesso
funzionale tra le affermazioni extra moenia e le funzioni in concreto
svolte dal parlamentare che ne e' stato l'artefice. 
    Tali   dichiarazioni    debbono    cioe'    essere    espressione
dell'esercizio di attivita' parlamentare  effettivamente  svolta  (in
questo senso si e' ripetutamente espressa la Corte costituzionale: si
vedano tra le altre le sentenze n. 98 del 2011; n. 420,  n.  410,  n.
134 n. 171 del 2008, n. 11 e n. 10 del 2000). 
    Non e' dunque sufficiente un semplice collegamento  di  argomento
e/o  di  contesto  politico  tra  l'attivita'   parlamentare   e   le
dichiarazioni rese ma le  affermazioni  debbono  essere  riproduttive
delle opinioni sostenute in sede parlamentare ed avere  la  finalita'
di renderle note ai cittadini (in questo senso da ultimo Corte  cost.
sentenza n. 82 del 2011). 
    In caso contrario, saremmo di fronte non gia'  al  «riflesso  del
peculiare contributo che ciascun deputato e ciascun senatore  apporta
alla vita democratica mediante le proprie opinioni e i  propri  voti»
ma all'esercizio della libera manifestazione del pensiero  assicurata
a tutti dall'art. 21. della Costituzione (in questo senso Corte cost.
sentenza n. 166 del 2007). 
    La  garanzia  costituzionale  dell'insindacabilita'  non   opera,
quindi,  sulla  base  di  un  mero  collegamento  con  lo  status  di
parlamentare in se' considerato (in questo senso Cort. cost. sentenza
n. 98 del 2011): diversamente si trasformerebbe  l'istituto  previsto
dall'art.  68  Cost.  in  un  ingiustificato   privilegio   personale
incompatibile con il principio di eguaglianza e  con  il  diritto  di
accesso alla giustizia da parte dei cittadini che  sarebbero  esposti
alla possibilita' di essere diffamati ogni qual volta  le  offese  al
proprio onore siano state pronunciate da un membro del Parlamento  le
cui le opinioni  e  le  dichiarazioni  sarebbero  sempre  e  comunque
sottratte a verifica giurisdizionale. 
    Pertanto  solo  se  le  dichiarazioni   sono   effettivamente   e
sostanzialmente corrispondenti ai contenuti di attivita'  tipicamente
parlamentari e sono la divulgazione o la comunicazione all'esterno di
atti gia' compiuti nell'ambito della stretta  funzione  parlamentare,
potra' essere ravvisata l'esistenza del predetto nesso funzionale  e,
conseguentemente, fatta applicazione dell'art. 68 Cost. 
    2. Durante  la  sua  audizione  da  parte  della  Giunta  per  le
autorizzazioni a procedere, Iannuzzi Raffale ha indicato nel  disegno
di legge da lui, firmato insieme ad altri parlamentari ed  avente  ad
oggetto l'istituzione di una commissione di inchiesta sulla  gestione
di coloro che collaborano  con  la  giustizia  (A.S  2292  delle  XIV
legislatura),  l'attivita'  parlamentare  alla  quale   le   opinioni
espresse nel libro sarebbero funzionalmente collegate. 
    In realta', il disegno di legge prevede la  costituzione  di  una
Commissione parlamentare d'inchiesta sulla  gestione  di  coloro  che
collaborano  con  la  giustizia  con   il   compito   di   verificare
l'attuazione delle disposizioni del decreto legge 15 gennaio 1991  n.
8, convertito con modificazioni dalla legge 15 marzo 1993 n. 119, del
regolamento di cui al decreto del Ministro dell'interno  24  novembre
1994 n. 687 e della legge 13 febbraio 2001 n. 45. 
    In particolare, l'art. 1. del disegno  di  legge  stabilisce  che
l'istituenda Commissione dovrebbe accertare: 
        a) le ragioni che hanno portato ad  impiegare  ingenti  somme
per soddisfare le richieste di alcuni collaboratori; 
        b) se siano state recuperate da parte dello  Stato  le  somme
pagate ai collaboratori dei quali si e' successivamente accertato  il
mendacio o la violazione della convenzione stipulata; 
        c) quanti anni di carcere siano stati espiati da chi accusato
dai collaboratori e' risultato  poi  innocente  e  quali  conseguenze
concrete cio' ha comportato per il collaboratore; 
        d)  i  rapporti  economici  tra  i  collaboratori  e  i  loro
difensori; 
        e) gli ambiti del controllo del Servizio  di  Protezione  sui
collaboratori stessi; 
        f) i criteri adottati per l'inserimento  o  l'espulsione  del
collaboratore nel programma di protezione; 
        g) le vicende legate al fenomeno allarmante dei numerosissimi
pentiti che sono tornati a delinquere. 
    Il tema dell'iniziativa parlamentare  e',  quindi,  di  carattere
generale in quanto affronta la questione della gestione dei pentiti e
le conseguenze delle dichiarazioni  da  loro  rese  e  neppure  nella
relazione che accompagna il  disegno  di  legge  vi  e'  qualsivoglia
riferimento alle vicende giudiziarie di Bruno Contrada,  del  Tenente
dei Carabinieri Carmelo Canale, del Capitano dei Carabinieri Giuseppe
De Donno, del Colonnello Meli Sergio, del Generale Mario Mori  che  -
si sostiene nel  libro  -  i  magistrati  della  Procura  di  Palermo
(persone offese nel processo  per  cui  oggi  si  procede)  avrebbero
ingiustamente perseguitato ora creando prove a loro carico attraverso
la manipolazione dei pentiti ora omettendo le prove a loro discarico. 
    Si  potrebbe,  al  piu',  parlare  di  una  contiguita'  tra  gli
argomenti del libro e l'iniziativa parlamentare dello Iannuzzi ma non
certo di un nesso funzionale secondo i principi dettati  dalla  Corte
costituzionale. 
    Peraltro  tra  la  presentazione  del  disegno  di  legge  e   la
pubblicazione del libro vi e' una distanza temporale  talmente  ampia
(il disegno di legge e' stato presentato il 25 giugno 2003 mentre  le
affermazioni contenute nell'articolo oggetto  del  presente  giudizio
risalgono a febbraio 2008) da far escludere il carattere  divulgativo
del libro rispetto al disegno di legge. 
    In conclusione, la condotta  addebitabile  al  senatore  Iannuzzi
esula dall'esercizio  delle  funzioni  parlamentari  e  non  presenta
oggettivamente   alcun   legame   con   atti   parlamentari   neppure
nell'accezione piu' ampia e, come tale, dovrebbe essere sottoposte al
sindacato giurisdizionale. 
    3. La difesa ha sostenuto che, nel caso  in  esame,  ricorrerebbe
un'ipotesi di ne bis in idem. 
    Il libro «Lo sbirro e lo Stato», infatti, riproduce  un  articolo
gia' pubblicato nel 2004 sul quotidiano  Il  Giornale  che  e'  stato
oggetto di un procedimento penale  avanti  al  Tribunale  di  Milano,
sempre a carico del senatore Iannuzzi, per il reato  di  diffamazione
col mezzo della stampa. Sul contenuto dell'articolo il Senato  si  e'
pronunciato nel senso dell'insindacabilita' delle  opinioni  espresse
dal senatore Iannuzzi e, a seguito di  questa  delibera,  il  GIP  ha
sollevato   conflitto   di   attribuzioni    dinanzi    alla    Corte
costituzionale. Il ricorso e' stato, pero', dichiarato  improcedibile
in quanto l'atto introduttivo e' stato  depositato  oltre  i  termini
previsti dalle norme integrative per  i  giudizi  avanti  alla  Corte
costituzionale.  Conseguentemente  il  senatore  Iannuzzi  e'   stato
prosciolto dal GIP. 
    Secondo la  difesa,  non  si  potrebbe,  percio',  sottoporre  il
senatore Iannuzzi ad un nuovo processo per il reato di diffamazione a
mezzo stampa in quanto e' gia' stato giudicato per lo stesso fatto. 
    Questa tesi non puo' essere condivisa. 
    Oggetto  dell'attuale  procedimento  non  sono  le   affermazioni
contenute nell'articolo pubblicato su Il Giornale ma piuttosto quelle
contenute nell'intero libro  che  non  si  esaurisce  nel  precedente
scritto. 
    Peraltro, ove anche nel libro fosse  stato  solamente  riprodotto
l'articolo gia' pubblicato su Il Giornale saremmo comunque di  fronte
ad un reato diverso e autonomo rispetto a quello precedente giudicato
in quanto  la  diffamazione  col  mezzo  della  stampa  e'  un  reato
istantaneo che si consuma nel tempo e nel luogo in cui lo stampato e'
messo in circolazione (in questo senso Cass. pen. sez. 1, ord. n. 317
del 24 febbraio 1976) . 
    In altre parole, l'edizione di un libro successiva alla prima non
si risolve necessariamente in un fatto penalmente irrilevante perche'
contrariamente ai meri atti riproduttivi di piu'  esemplari  mediante
il procedimento della stampa essa e' compiutamente autonoma sul piano
fenomenico e su quello  giuridico  amministrativo  e  sorretta  dalla
volonta' di diffondere la pubblicazione (cosi' Cass. pen. sez. 5,  29
settembre 1983, n. 6). 
    4. Per le ragioni sopra esposte e' opinione di questo Giudice che
le dichiarazioni contenute nel libro «Lo sbirro e lo Stato» siano del
tutto svincolate dall'attivita' parlamentare del  suo  autore  e  che
pertanto la decisione del Senato della Repubblica - che  ha  ritenuto
le stesse coperte da insindacabilita' ex art. 68 Cost. - sia venuta a
ledere le prerogative dell'ordine giurisdizionale. 
    Ricorrendone i presupposti soggettivi (il Tribunale  di  Roma  e'
competente a decidere sui reati contestati a Iannuzzi  Raffaele)  che
oggettivi (la menzionata  deliberazione  del  Senato  deve  ritenersi
lesiva  della  propria  sfera  di   attribuzioni   costituzionalmente
garantita), occorre sollevare conflitto di  attribuzioni  tra  poteri
dello Stato.